Gran Loggia 2022 “Scienza e Conoscenza”. La guerra ai confini dell’Europa e i possibili scenari, dibattito con Mieli, Campi e Barbano/Il video

“Un mondo fuori controllo. La scienza della politica tra tentazioni egemoniche ed equilibri internazionali” è il titolo del dibattito che si è tenuto nella prima giornata dei lavori di Gran Loggia il pomeriggio dell’ 8 aprile al Palacongressi di Rimini. A parlare del futuro che ci attende e dei  grandi cambiamenti, innescati dalla guerra che si combatte ai confini orientali dell’Europa Paolo Mieli, saggista, storico e giornalista, direttore de la Stampa dal 1990 al 1992, e del Corriere della Sera dal 1992 al 1997 e dal 2004 al 2009 e dal 2009 al 2016 presidente di Rcs, ospite già della Gran Loggia 2018, in cui fu inviato a intervenire ad una tavola rotonda dal titolo “Liberi dal pregiudizio”. Con lui Alessandro Campi, professore ordinario di Scienza Politica e Relazioni Internazionali all’Università di Perugia, e direttore del trimestrale Rivista di Politica, esperto di conflitti internazionali e studi, e, nelle vesti di moderatore,  Alessandro Barbano giornalista, condirettore del Corriere dello Sport e già direttore de “Il Mattino” di Napoli.

Varie le tematiche affrontate nel corso dell’incontro, legate al conflitto in atto in Ucraina. Con una premessa di Mieli, sollecitata da Barbano, sull’impossibilità di esprimersi imparzialmente quello che sta accadendo. Mieli, che ha dato da poco alle stampe un libro che si intitola “Il tribunale della storia”, diventato già bestseller, ha avvertito che il giudizio che noi diamo adesso degli eventi in corso non coinciderà con quello che matureremo nella distanza del tempo, quando, superate le emozioni, le incertezze ricostruiremo il mosaico dei fatti, attraverso nuove evidenze, nuove prove che ci porteranno a riconsiderare il tutto, a rivedere anche le idee, che abbiamo avuto. “Il tribunale della storia non ha niente a che fare -ha spiegato Mieli- con i tribunali speciali, i tribunali internazionali, da Norimberga a Tokyo, all’ultimo, quello dell’Aja, che sono importanti soprattutto da un punto di vista propagandistico. Chi entra è già  colpevole e il massimo che può sperare in un’attenuazione della pena”. Il tribunale della storia invece rimette tutto in discussione e deve ammettere la possibilità che in realtà i buoni fossero cattivi e viceversa. Qui sta il punto fondamentale, ha sottolineato, nell’analizzare una vicenda a distanza, si scopre che è difficile che tutto il bene stia da una parte e tutto il male dall’altra.

E’ anche per questo che mentre accadono eventi di tale portata, come una guerra appunto, bisogna stare attenti alla narrazione e usare le definizioni appropriate. E’ stato critico Mieli nei confronti del presidente ucraino Volodymyr Zelensky che per descrivere quello che sta avvenendo nel suo paese ha usato il termine improprio di “genocidio”, arrivando ad equiparare nel suo discorso tenuto alcune settimane fa dinanzi alla knesset, in collegamento  con Gerusalemme, la shoah del popolo ebraico all’uccisione di civili a Bucha e in molte altre città. Qui si tratta, ha rimarcato Mieli, di crimini di guerra. Ben altra cosa è il genocidio, ha spiegato. Una tragedia vissuta dall’Ucraina stessa, con l’Holodomor, la carestia che tra il 1932 e il 1933 uccise quattro o cinque milioni di persone. Una carestia indotta dal gruppo dirigente dell’Urss: Stalin aveva l’intento di eliminare i contadini ribelli, che furono uccisi con la fame, deliberatamente. I confini della regione furono chiusi, il grano fu requisito e lasciato marcire in silos sorvegliati da militari. Ogni tipo di animale fu soppresso: cani, gatti, uccelli, selvaggina, nidi compresi. E per sopravvivere ci fu chi si nutrì di radici e cortecce: molti di morirono per denutrizione e nell’autunno del ’33 ci furono anche casi di cannibalismo. “Non c’è necessità -ha aggiunto- di usare parole sovrabbondanti”.  “Io sono contro l’aggressione russa che ha provocato la guerra con un atto di prepotenza selvaggia e sono – ha proseguito-  dalla parte del popolo e della nazione che ne è vittima. Tuttavia dico che questa aggressione non si configura come genocidio. Né può essere un “genocidio simbolico”, ha detto Mieli replicando a Barbano. “Usare correttamente le parole è un comandamento. Perché l’uso distorto facilita la parte avversa”, ha spiegato ricordando che da tempo i russi parlano di intento genocidario in Donbass. “Non si banalizzi come si è fatto con il fascismo”, è stato il suo invito. Il genocidio ha caratterizzato momenti ben precisi della storia del Novecento e non è per nulla riduttivo, ha sottolineato Mieli,  parlare di crimini di guerra. Non si tratta di una cosa di lana caprina. Il genocidio ha luogo quando che c’è un capo o un gruppo dirigente che allestisce una macchina che si occupa prevalentemente di quello, producendo effetti di dimensione iperbolica, centinaia, migliaia, milioni di morti. Ad ogni evidenza non si è messo in atto qui quello che si è messo in atto contro gli ebrei”.

Ma di che cosa ha paura Putin?, ha chiesto poi Barbano al professor Campi. Ha paura d  dell’identità ucraina, della Nato o della libertà diffusiva e del benessere? Le cause della guerra in Ucraina sono ben piu’ complesse e non si può pretendere di capirle tutte oggi, ha replicato il politologo, ricordando che per cento anni si è ragionato sul militarismo tedesco che avrebbe provocato la prima guerra mondiale, per poi cercare di capire le concause, fino ad arrivare alla conclusione che “una guerra può scoppiare perché a un certo punto accade che nessuno degli attori che finiranno per essere coinvolti ne controlla piu’ le dinamiche politiche che dovrebbero e potrebbero evitarla. “Una guerra -ha detto Campi-  puo’ scoppiare persino per caso. E se ci trasferiamo nel contesto del conflitto ucraino, la prima cosa da contestare è che questa guerra è la guerra di Putin. Io non sono convito che Putin sia impazzito. Non credo proprio che siamo di fronte ad un autocrate che ha perso la ragione. Una spiegazione del genere può far comodo. Ma sappiamo tutti che la guerra non è scoppiata perché Putin non controlla piu le sue emozioni. Questa guerra sarebbe scoppiata lo stesso per ragioni strumentali di natura geopolitica che prescindono dall’autocrate di turno”. “Certo se la Russia fosse stata una democrazia , forse staremmo raccontando un altro scenario. La Russia – ha sottolineato Campi- non è una democrazia e  dacchè  la conosciamo dubito che lo sarà a breve. Quelli che sostengono che sarebbe auspicabile un regime change dovrebbero spiegare due cose. Quale strategia di regime change ha funzionato negli ultimi 30 anni e se si è riusciti a deporre un autocrate e a far nascere una democrazia di quelle che piacciono a noi. Vogliamo parlare dell’iraq?”, ha incalzato. “In Iraq- ha ricordato- c’è  stato un regime change, ma come effetto collaterale abbiamo avuto anche l’Isis. Si pagano anche questi prezzi. Per fare un regime change devi avere un cavallo pronto alternativo. Non è facile. In Russia non c’e un’alternativa praticabile a Putin. Quanto alle opposizioni  a Putin, sono composte da gruppi di nazionalisti fanatici. In quel pezzo di Europa non si è riusciti a sradicare quella forma virulenta di nazionalismo che è un fattore mobilitante molto forte. Putin ha paura della democrazia, la Nato è un prestesto propagandistico in senso contrario. Anche questo è un argomento”.

Secondo Campi c’è  stato un momento subito dopo la guerra fredda in cui ci si è posto il problema di provare a integrare la Russia “in un sistema di sicurezza collettivo che alla fine poteva essere un vantaggio per quel paese che non si sarebbe trovato spinto verso le steppe asiatiche in un’alleanza forzata con la Cina, e avrebbe fatto tutto sommato comodo anche a noi con la speranza che potesse poi partire un lento processo di democratizzazione di un mondo che democratico non è mai stato e che tutti dubitiamo possa diventarlo facendo cadere l’autocrate”.

Perché l’Europa non l’ha fatto? Esistevano forse accordi segreti e impegni presi con Gorbaciov a non estendere il perimetro della Nato? Ma è possibile impedire sulla base di ciò, a un popolo di autodeterminarsi? Ha chiesto ancora Barbano a Campi.

“Non sappiamo che tipo di impegni siano stati presi. Ma il problema in questo momento è un altro. Non è neppure far diventare la Russia una democrazia o sconfiggerla. Il problema è quello che potrebbe accadere se quel paese, che è una potenza nuclerare, dovesse implodere e destabilizzarsi. Ripeto, c’è stata incapacità  a governare quel processo complessivo che chiama post guerra fredda e dal quale tutto discende. La guerra fredda -ha precisato Campi-  non è stata seguita da una fase costituente, in cui si sono dettate regole condivise. Lo abbiamo fatto dopo la prima e la seconda guerra mondiale. Dopo la guerra fredda ha vinto l’occidente, l’ordine che è prevalso è occidentale, ma non è mai stato codificato come tale. Sono così  emersi attori sulla scena internazionale che non c’erano 30 anni fa. E qualcuno crescendo in potenza e in altro, si pone il problema di cambiare le regole del gioco….Cina, Russia, anche India. In questo momento il punto è far finire la guerra. E quando sarà finita,  dar vita a un ordine del mondo che tenga conto dell’emergere di polarità alternative e concorrenti all’occidente che deve cerxare di integrare”.

Ma quello che stiamo dicendo, ha precisto Barbano dal canto suo, spiega ma non giustifica. Uno  scarto che purtroppo si smarrisce nel dibattito pubblico. Cosi accade che  il complottismo si stia passando la fiaccola tra i no vax e i no Nato.  “E’ un tema questo – ha riconosciuto Campi- degli ultimi tre anni, della tragica sequenza pandemia guerra, che ha indotto a immaginare semplicisticamente molti che sia il virus che il conflitto siano il prodotto di qualche volontà maligna che fa si che noi tutti siamo manipolati. Quando ci sono momenti,  eventi di accelerazione della storia, eventi che non riesci a capire razionalmente, il complottismo diventa comoda spiegazione. La Rivoluzione francese, una macchinazione massonica, la rivoluzione russa, una congiura ebraica, e poi le torri gemelle e la pandemia. Sempre lo stesso meccanismo strutturale legato ai salti della storia”.  E a questo c’è da aggiungere dell’altro, secondo Campi. I mezzi con i quali viene plasmato in chiave complottista  il nostro immaginario collettivo. Primo fra tutti l’industria del cinema, Hollywood in testa, che ha sempre sfornato film giocati in chiave cospiratoria. Una responsabilità che il mondo del cinema però si divide con il giornalismo televisivo, secondo Mieli, che sulla stessa linea d’onda di Campi ha espresso scetticismo  anche sulla possibilità che in un futuro vicino l’Europa possa sganciarsi dalla Nato e costituire una propria struttura difensiva. La Nato, ha detto Campi, è di per sé la pietra tombale di qualsiasi ipotesi di difesa integrata europea. Finche c’è una cosa che si chiama Nato, non avrebbe senso pratico. Piuttosto la Nato  ha un origine che andrebbe ripensata (nata contro l’Urss). C’e’ un soggetto, ha ricordato il politologo, che è  forte nella Nato, dopo gli  Usa: la Turchia, che sta giocando una sua partita, e che è il secondo paese della Nato (l’altro è l’Ungheria) che non applica le sanzioni a Mosca. E questo è forse anche positivo alla luce del suo lavoro in questo frangente di mediatore di pace. Ma come porci nei confronti degli autocrati? Dobbiamo arrenderci all’evidenza che la democrazia non si esporta con la guerra, che non si esporta proprio. Ma anche assumerci maggiore responsabilità. Dobbiamo, ha concluso Mieli, aiutare l’Ucraina. E’ la prima volta nella storia che un popolo senza essere affiancato da americani e Nato resiste. Una resistenza del genere potrebbe avere un relativo successo. Un parziale successo. Gli ucraini potrebbero rivelarsi una sorpresa come lo furono gli inglesi nel 1940. Che tennero duro.



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