1925-1945. L’impegno antifascista del Grande Oriente d’Italia in esilio

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Nel pieno delle violenze scatenate in seguito all’attentato di Anteo Zamboni, numerosi esponenti politici antifascisti si trasferirono all’estero: tra questi i massoni Eugenio Chiesa, Cipriano Facchinetti, Mario Angeloni, Aurelio Natoli, Giuseppe Chiostergi – stabilitosi a Ginevra, vero centro nevralgico deputato ad accogliere numerosi antifascisti che ospitò, fra gli altri, il socialista Alessandro Pertini – Randolfo Pacciardi, Arturo Labriola, Silvio Trentin e Giuseppe Leti. Quest’ultimo, grazie alla stima di cui godeva in tutti gli ambienti, svolgerà compiti essenziali di mediazione e di collegamento fra le iniziative politiche degli esuli: quando nell’aprile del 1927 si costituirà la «Concentrazione antifascista», cui aderiranno il Partito socialista italiano (PSI), il Partito socialista unitario dei lavoratori italiani (PSULI), la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) e la Lega italiana dei dirittti dell’uomo (LIDU), Leti ne diventerà il segretario.

Fondamentali, per la Concentrazione, si rivelarono le risorse assicurate dalla LIDU, fondata nel 1923 per iniziativa di un gruppo di massoni già attivi nello schieramento interventista democratico: il socialista riformista Luigi Campolonghi, il repubblicano Natoli, il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris e Ubaldo Triaca, Venerabile della loggia «Italia» di Parigi, all’obbedienza della Gran Loggia di Francia. La LIDU era sostenuta dalla Ligue française des droits de l’homme, organizzazione forte di 1800 sezioni e 140.000 iscritti e massima espressione del solidarismo di matrice radicalmassonica, che aveva ricoperto un ruolo di primo piano nella laicizzazione della società francese fin dai tempi dell’«affaire Dreyfus». Grazie a Triaca e a Campolonghi, fra i cui amici ed estimatori figuravano Herriot, Blum e Poincaré, la LIDU si giovava di positivi contatti con esponenti e forze della sinistra radicale della III Repubblica. Mentre in tal modo si costruivano le premesse per una ripresa organizzata all’estero della massoneria italiana (si tenga presente che le logge costituite fuori dal Paese non sottostavano all’obbligo dello scioglimento decretato alla fine del ’25 da Torrigiani), nella penisola la difficile sorte dell’Istituzione si rifletteva in quella dei suoi massimi dirigenti: il Gran Maestro, rientrato in patria nell’aprile del 1927 dalla Provenza – dove era stato in cura a causa della salute malferma – per testimoniare al processo Capello, fu condannato al confino e deportato a Lipari; fu poi trasferito a Ponza, dove nel 1931 fondò la loggia «Pisacane», di cui fecero parte Placido Martini e il comunista Silvio Campanile, entrambi trucidati alle Fosse Ardeatine. Infine, ritornato ormai pressoché cieco nella sua casa di Lamporecchio, Torrigiani morì il 31 agosto 1932. Anche il Gran Maestro Aggiunto Giuseppe Meoni, nominato da Torrigiani presidente del Comitato coordinatore per la gestione dei beni dell’Istituzione, fu condannato nel maggio del 1929 a cinque anni di confino e deportato a Ponza; nel corso dello stesso mese Ettore Ferrari fu denunciato con l’accusa di aver tentato di riorganizzare la massoneria. La firma, l’11 febbraio 1929, dei trattati del Laterano tra Mussolini e la Santa Sede era apparsa come la vittoria dell’antirisorgimento e come la sconfitta definitiva dell’istanza laica rappresentata in Italia per almeno un settantennio dalla massoneria. Tuttavia, se il 1929 era stato un anno di sconfitte per gli oppositori del fascismo, esso aveva anche registrato per costoro una vittoria, rappresentata dalla fuga da Lipari, nel mese di luglio, di Rosselli, Lussu e del massone Francesco Fausto Nitti: l’evento stava a dimostrare come il coordinamento tra iniziativa degli esuli e azione interna potesse condurre al successo. A questo inizio di riscossa fece seguito, il 12 gennaio 1930, la ricostituzione in esilio del Grande Oriente d’Italia. Nei quattro anni che precedettero la ricostruzione dell’Obbedienza di Palazzo Giustiniani in esilio il testimone passò alle logge operanti in Argentina – non toccate dal decreto di scioglimento di Torrigiani – che, sotto la guida di Alessandro Tedeschi, si costituirono in un comitato che decise di continuare i lavori come se il GOI esistesse e di coordinare le logge nazionali fuori dalla penisola finché l’obbedienza italiana non si fosse ricostituita. Indubbiamente, some sottolineò Tedeschi in un promemoria inviato a tutte le Potenze massoniche, questa iniziativa rese un grande servizio alla «sopravvivenza senza interruzione» del GOI. Contemporaneamente, in Francia il ruolo di collegamento tra gli esuli massoni fu ricoperto dalla loggia «Italia» e in particolare dal suo Venerabile, Ubaldo Triaca. Da questa officina, costituita nel 1913, nacque, con lo specifico scopo di raggruppare i massoni italiani in esilio, la «Nuova Italia», il cui Maestro Venerabile era il presidente della sezione parigina della LIDU, Antonio Coen. Pur avendo stabilito il proprio domicilio ufficiale all’Oriente di Londra (in Sheriff Road 2, West Hampstead, London 6, presso l’attività professionale del noto massone italiano Francesco Galasso, da tempo emigrato in Inghilterra), nei fatti il GOI agiva a Parigi, dove nel 1932 ne sarebbe stata trasferita formalmente la sede.

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A causa del confino cui il Gran Maestro Torrigiani e il suo Aggiunto Meoni erano stati condannati, la direzione fu assunta dal deputato repubblicano Eugenio Chiesa, nominato secondo Gran Maestro Aggiunto. Questi era ben noto, oltre che per il suo impegno come dirigente repubblicano e della LIDU, anche per il coraggioso intervento tenuto alla Camera il 12 giugno 1924, a pochi giorni dalla scomparsa di Giacomo Matteotti: alla presenza di Mussolini, rimasto in silenzio di fronte a un’interrogazione del deputato socialista Enrico Gonzales, egli era esploso gridando: «Risponda il capo del governo! Risponda! Tace! È complice!». Fu grazie al suo prestigio e all’energica azione di propaganda svolta attraverso una serie di conferenze tenute in Svizzera e in Francia tra il 1928 e il 1930 che la partecipazione massonica allo schieramento antifascista divenne decisiva.

Dopo la sua morte, avvenuta il 22 giugno 1930 a Giverny, località della Normandia in cui si era ritirato per curarsi, prese il suo posto il socialista riformista Arturo Labriola, già ministro del Lavoro nel governo Giolitti. Le priorità di Labriola erano di ottenere sia i finanziamenti per il sostegno del GOI in Italia e in esilio, sia il riconoscimento da parte delle altre Obbedienze straniere.
Grazie alle conoscenze di Leti venne fondata negli Stati Uniti la società nazionale FIDES, rivolta principalmente a elementi liberali, protestanti e massoni. La FIDES curava la pubblicazione del bollettino antifascista «Italia», firmato da Filippo Turati, che aveva la funzione di informare l’opinione pubblica americana e di raccogliere gli aiuti destinati agli esuli. Nell’ottobre del 1931 Leti, nel ruolo di presidente, Pietro Nenni, Ferdinando Bosso e Felice Quaglino diedero vita alla commissione che ottenne l’ingresso del movimento «Giustizia e Libertà» nella Concentrazione antifascista. Nel novembre dello stesso anno, al dimissionario Labriola succedette nella carica di Gran Maestro Alessandro Tedeschi, stimato medico della comunità italiana di Buenos Aires e fervente mazziniano, il quale, dopo una lunga permanenza in Argentina, agli inizi degli anni trenta aveva deciso di stabilirsi in Francia per collaborare alla rinascita della massoneria in esilio. Fin dalla prima balaustra, Tedeschi volle ribadire che la sua gran maestranza si inseriva in quell’«afflato mazziniano» che aveva accompagnato e ispirato i suoi predecessori, precisando, con toni profetici, che la massoneria avrebbe fatto la sua parte per la realizzazione di un «fine pieno di luce e forse anche pieno di sangue», ossia la liberazione dell’Italia dalla dittatura e il ripristino della libertà «in quella terra, che fu la patria di tutte le libertà, e le cui tradizioni laiche e repubblicane risuonano in tutti i secoli della sua storia». Tuttavia il primo dei problemi cui il nuovo Gran Maestro dovette subito far fronte era del tutto inscritto all’interno del mondo della liberamuratoria: la ricollocazione dell’Obbedienza italiana in esilio nel tessuto delle relazioni massoniche internazionali. La questione, a suo tempo già sollevata da Labriola, non aveva tuttavia compiuto passi in avanti e procedeva con difficoltà a causa sia della situazione atipica in cui si trovava il GOI, sia dell’ottusità mostrata da quei dirigenti massoni stranieri che tardavano a comprendere cosa davvero fosse una dittatura di stampo fascista e in quali difficoltà si trovassero a operare i massoni italiani. In una lettera indirizzata alla dirigenza dell’Associazione Massonica Internazionale e firmata il 13 giugno 1930, pochi giorni prima della propria morte, Eugenio Chiesa elencava le ragioni – fra cui l’adesione delle logge del GOI all’estero – che avrebbero dovuto far ammettere la sua massoneria esule nell’associazione. Nella stessa missiva egli rigettava inoltre le richieste assurde, avanzate da più parti, di fusione con Piazza del Gesù e di un rientro in Italia, commentando amaramente: «Quando si scriverà la storia della nostra grande famiglia in Italia, sarà difficile alla Massoneria straniera, in particolare agli alti gradi del Rito Scozzese, di scolparsi delle sue gravi responsabilità». «Cinismo indegno», ribadì esattamente quattro anni dopo Tedeschi in seguito a un ennesimo e ridicolo rifiuto da parte dell’AMI di riconoscere l’Obbedienza italiana in esilio, almeno fino a quando questa non avesse avuto logge operanti in patria. Rifiuto motivato dalla necessità di non creare precedenti che potessero porre in discussione il ‘dogma della territorialità’, che vietava sostanzialmente alle Obbedienze massoniche regolari di installare logge in quei paesi in cui esistesse già una Comunione liberomuratoria regolarmente costituita.

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In un suo libro, Leti annotò che «né la solidarietà mondiale, né quella più ristretta europea non hanno mai sufficientemente funzionato»: parole amare per chi, nel corso del Congresso massonico internazionale svoltosi a Roma nel 1911, lesse una relazione incentrata sul tema La solidarietà mondiale della massoneria, approvata all’unanimità dai Gran Maestri in quell’occasione ospitati nella «città eterna» dal GOI. Il 31 agosto 1932 moriva Torrigiani. Tedeschi ne dava notizia ai fratelli stranieri, con accenti commossi, in una circolare listata a lutto: da quel momento in avanti, le commemorazioni di Torrigiani valsero a destare in più d’una occasione le simpatie dei fratelli non italiani. L’ascesa al potere di Adolf Hitler in Germania, avvenuta alla fine di gennaio del 1933, sbloccò la situazione d’immobilismo in cui da tempo si trovava la politica europea.

Negli anni successivi il progressivo dilagare del contagio fascista avrebbe fatto vivere alle massonerie di altri paesi le esperienze dolorose vissute da quella italiana. Il 29 giugno 1934 la prematura scomparsa di Meoni apponeva un ulteriore suggello alle sofferenze della liberamuratoria in Italia. Il 2 settembre si tenne, nella casa di Tedeschi a Reignac (dipartimento della Gironda), un’Assemblea nel corso della quale questi accennò all’avvenuto rilancio dell’iniziativa massonica nella penisola. L’anno successivo sempre Tedeschi propose, perdurando le tergiversazioni dell’AMI, il progetto di dare vita a una lega delle massonerie perseguitate, che si concretizzò nel 1937. Con l’inizio della guerra d’Etiopia si accentuò la dislocazione della situazione internazionale: in una sua balaustra, Tedeschi additò con lungimiranza le future, nefaste conseguenze del conflitto, contrariamente ad altri che furono invece indotti, alla luce dell’apparente trionfo del regime fascista, a indecorose resipiscenze. Tale fu il caso dell’ex Gran Maestro Aggiunto Arturo Labriola, preceduto in ciò dal clamoroso voltafaccia dell’ex Gran Segretario Alberto Giannini che, tornato in Italia, aderì al fascismo e scrisse successivamente un libro pieno di acredine nei confronti del fuoriuscitismo in generale, e della massoneria in particolare. La vittoria militare in Etiopia e la proclamazione dell’impero fascista causarono, in molti italiani in patria, un’ubriacatura nazionalistica, mentre sembrava sempre più realizzarsi ciò che Carlo Rosselli aveva previsto fin dal 1933. La rivolta militare scoppiata nel luglio del 1936 nel Marocco spagnolo contro il governo repubblicano di Madrid fu come il sinistro crepitio di una di quelle fiammate tra i cespugli che, in breve, divampano in un incendio spaventoso. I massoni furono tra le vittime designate dalla coalizione reazionaria facente capo al generale Francisco Franco, che il 18 luglio di quell’anno diede inizio a «una crociata contro la politica, il marxismo, la massoneria» scatenando una guerra civile che durò quasi tre anni e che rappresentò sotto molti aspetti – ideologico, politico, militare – il preludio del secondo conflitto mondiale. Oltre ai consueti orrori prodotti dalla guerra, in quei mesi in Spagna si instaurò un clima di autentica persecuzione nei confronti della massoneria che aumentava di pari passo con la conquista di nuovi territori da parte dei nazionalisti. Nella repressione venivano coinvolti non soltanto i massoni autentici, ma anche quelli che erano indicati come tali. Una vera e propria forma di isterismo che non si limitò a colpire i vivi, ma si accanì anche sui morti: le tombe di alcuni massoni vennero profanate, tanto che nel 1938 un decreto impose la distruzione dei simboli liberomuratori presenti nei cimiteri.

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Di fronte a tanta violenza e consapevoli che in Spagna erano in gioco i principi di libertà, di eguaglianza e di fratellanza, numerosi membri della massoneria scelsero di correre volontariamente in difesa della repubblica democratica minacciata dalle armate di Franco. Tra i casi più noti e tragici vanno ricordati quelli del perugino Mario Angeloni, caduto nella battaglia di Monte Pelato dell’agosto del 1936 mentre era a capo del reparto costituito da Carlo Rosselli, e dell’istriano Giordano Bruno Viezzoli, che morì mentre col suo aereo prendeva parte alla difesa di Madrid. Notevole fu anche l’attivismo dimostrato da coloro che, pur non combattendo in terra iberica, si batterono per la libertà del popolo spagnolo. Il Secondo Gran Sorvegliante Francesco Galasso ospitò nella propria abitazione londinese la redazione della rivista «Spain and the world», organo d’ispirazione libertaria al quale collaborò anche George Orwell, e si adoperò per offrire ospitalità agli italiani che avevano combattuto nelle Brigate internazionali e che, per questo, non potevano fare rientro alla fine del conflitto nell’Italia fascista.

In Svizzera Chiostergi sarà uno dei promotori dell’associazione «Amici della Spagna repubblicana» e pubblicherà, insieme ai giornalisti repubblicani e massoni Silvio Stringari – ex redattore del «Gazzettino» costretto all’esilio per sfuggire alla violenza fascista – e Aurelio Natoli, tre numeri speciali de «La voce repubblicana», interamente dedicati alla lotta degli antifascisti italiani in Spagna e destinati alla diffusione clandestina nella penisola.
Nel corso dell’Assemblea del GOI in esilio, tenutasi a Parigi nel tempio della Gran Loggia di Francia di rue Puteaux il 20 giugno 1937, fu esaltata la partecipazione dei massoni alla guerra civile di Spagna, e il ricordo dei caduti venne in qualche modo legato a quello dei fratelli Rosselli. Il giorno successivo ebbe luogo l’assemblea di fondazione dell’Alleanza delle Massonerie perseguitate – ideata e presieduta da Tedeschi -, cui presero parte gli esponenti della massoneria spagnola, portoghese e germanica. Nella manifestazione esterna conclusiva Tedeschi inneggiò all’azione del comandante della brigata internazionale Garibaldi Randolfo Pacciardi, che nel 1938 venne autorizzato dalla Gran Loggia di New York a far visita alle officine di quello stato allo scopo di risolvere la posizione del riconoscimento di quelle obbedienze che, a causa della persecuzione da parte di regimi dittatoriali, fossero costrette all’esilio; segno che l’approssimarsi del conflitto mondiale non consentiva più ai fratelli stranieri quelle tergiversazioni a causa delle quali i massoni del GOI avevano sofferto.

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Com’è noto, la Seconda guerra mondiale scoppiò – il 1 settembre 1939 – in seguito all’attacco a sorpresa mosso dalle armate tedesche ai danni della Polonia. Della comunità dei massoni italiani esuli in Francia non faceva più parte Giuseppe Leti, morto nel giugno dello stesso 1939. Nel 1940 il crollo della Francia, avvenuto dopo poco più di un mese dall’inizio dell’offensiva tedesca, travolse anche i componenti del GOI in esilio, posti bruscamente di fronte all’alternativa tra una non facile fuga e l’imminente pericolo della condanna alla prigionia e la morte. In tale congiuntura Alessandro Tedeschi decretò che, in caso di suo decesso, le logge all’obbedienza del GOI in esilio procedessero alla nomina di un suo successore, e in questo senso raccomandò l’elezione del fratello Davide Augusto Albarin, un valdese stabilito ad Alessandria d’Egitto che si era fatto notare per il proprio impegno aprendo una sezione della LIDU in quella città.

Questi fu eletto all’unanimità da tutte le logge del GOI operanti all’estero dopo la morte di Tedeschi, avvenuta a Saint-Loubès il 19 agosto 1940. In seguito alla caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, un gruppo di dirigenti massonici costituitosi in governo dell’Ordine proclamò la ripresa dei lavori del GOI, non tenendo però conto dell’esistenza dell’omonimo in esilio. Si originò quindi uno iato organizzativo e, anche a causa delle drammatiche vicende che spezzarono l’Italia negli anni seguenti, si innescò uno stato di progressiva emarginazione di Albarin. Solo dopo la ricomposizione dell’unità del Paese e dell’organizzazione massonica nazionale sotto la reggenza di Guido Laj si provvide, nella primavera del 1947, a sanare la situazione. Fu così che si verificò uno scambio di documenti: Albarin, con una balaustra diretta alle logge italiane all’estero, invitò tutti i fratelli alla sua obbedienza a stringersi attorno alla nuova guida dell’Ordine, mentre egli riprendeva il suo posto fra le colonne della loggia «Cincinnato» – nome che, a questo punto, appariva profetico; nel contempo Laj, con un decreto datato 21 marzo 1947, riconobbe i meriti di Albarin e lo nominò Gran Maestro Onorario ad vitam.
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