Carli Ballola, sublime musicografo/ Il Manifesto

di Guido Barbieri
Primi anni Ottanta. Un corridoio stretto e buio al secondo piano del palazzo
della Rai di Viale Mazzini, a Roma. In fondo alla sfilata di uffici tutti uguali ce
n’è uno diverso dagli altri. Da dietro quella porta, infatti, proviene debole, ma
distinto, il suono di un pianoforte. Un suono anomalo, fuori posto, come


Karl Friedrich Scinkel, «Cielo stellato della Regina della notte», scenografia per «Il flauto magico», 1815

quello di una colonna sonora sbagliata. La porta si apre. Seduto a un
pianoforte verticale un po’ scordato, c’è un uomo che si intuisce piccolo di
statura. Sta suonando, con una certa grazia, senza alcun spartito sul leggio, le
prime misure di una Sonata di Beethoven, «La Tempesta».
E mentre le dita si muovono con sicurezza sulla tastiera l’uomo, con una voce
viva, sonora, ridente dice: «Come si fa a dire che questo è il primo tema? E
questo, allora, sarebbe il secondo? Ma qui ce n’è anche un terzo, allora. E dove
comincerebbe lo sviluppo? Qui? Oppure qui? Vedi Paolo – aggiunge
rivolgendosi al suo compagno di stanza – questa è la prova definitiva che la
forma sonata non esiste». L’uomo è Giovanni Carli Ballola, in una scena di
vita vera, tanti anni fa… Quella vita terrena che per lui, uomo di fede, si è
conclusa il 18 ottobre del 2023. Difficile, impossibile, definirlo con una sola
parola: musicologo, storico della musica, musicografo, critico, compositore,
revisore, librettista.
In realtà Giuanìn – come veniva chiamato affettuosamente tra i suoi amici –
ha compiuto il miracolo, durante i suoi 91 anni di esistenza, di riunire in un
unico alveo dei saperi pratiche e professioni che di solito vivono divise e
separate. Con un filo, però, a legarle: il rifiuto dei luoghi comuni della
storiografia, il rigetto delle convenzioni, l’avversione per le semplificazioni.
Carli Ballola – nei colloqui privati – si diceva erede di quella piccola nobiltà
milanese di fine Ottocento che in dissidio con la fazione più conservatrice e
reazionaria della nobiltà, si era schierata, a favore del progresso, della
industrializzazione, del giusto equilibrio tra le classi.
Da questa eredità – sosteneva – derivava il suo «progressismo liberale», che
negli anni lo aveva portato, senza alcun contrasto con il suo convinto
«cattolicesimo sociale», a condividere gli ideali di giustizia, di libertà, di
solidarietà professati dalla massoneria storica, italiana e viennese. Inevitabile,
dunque, che le sue prime passioni musicali si dirigessero verso due
compositori che in quegli ideali si erano riconosciuti e in quella cultura si
erano forgiati come lame al fuoco: Wolfgang Amadeus Mozart e Ludwig van
Beethoven.
Non a caso i suoi studi più originali, accanto ai due volumi più recenti dedicati
a Cherubini e Rossini, sono due monografie che ancora oggi restano un punto
di riferimento imprescindibile per studenti, docenti, ricercatori e musicologi:
Beethoven, pubblicato per la prima volta nel 1967, e Mozart, scritto insieme a
Roberto Parenti, la cui prima edizione risale al 1990. A proposito di
Beethoven, ad esempio, Carli Ballola rifiuta recisamente la vetusta «teoria dei
tre stili» e introduce la novità critica dei «tre stili e mezzo», laddove il «mezzo»
è rappresentato dall’elemento pervasivo del canto.
Di Mozart, invece, contesta l’immagine dell’eterno fanciullo candido e ribelle
attribuendogli la statura dell’«intellettuale» colto e avveduto, intriso di cultura
massonica: tesi che allora venne molto contestata dall’Accademia. Ma il tratto
che forse distingue più degli altri Carli Ballola dalla musicologia corrente è la
sua identità di sublime musicografo: un’attitudine che lo lega ai più raffinati
«scrittori di musica» del passato recente: Giorgio Vigolo, Alberto Savino,
Fedele D’Amico. Come altro si può definire, infatti, uno studioso capace di
tradurre un pensiero critico con queste parole, abbaglianti e precise:
«Insieme, variazione e polifonia concorrono, come principi determinanti, a
sollevare la musica dell’ultimo Beethoven dalla sfera del pathos e della
conflittualità a quella empirea della astrazione contemplativa, del gioco
schilleriano e del “dolce canto di riposo e di pace”».



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