Simboli. Io sono cattedrale | Robinson La Repubblica

di Silvia Ronchey

Una cattedrale è un’arca di simboli. Lo è, anzitutto, materialmente. Nelle sculture, nei bassorilievi e nei fregi, nelle ruote dei rosoni, nei caleidoscopi delle vetrate, nei claristori, dele navate, nelle maschere degli archivolti, in ogni dettaglio della sua multiforme architettura e della sua minuziosa decorazione, opera individuale e collettiva di carpentieri e muratori, scapellini e scultori – quei maçons o masons da cui prende il nome, si dice, la prima massoneria occidentale – e di tutti quegli altri artefici che pazientemente e unanimemente cooperano lungo il medioevo occidentale agli immani cantieri,
generazioni di umani espressero non solo la sapienza costruttrice dell’uomo, ma i misteri della sua interiorità. Innalzando verso il cielo un’architettura di simboli rappresentarono la struttura profonda dell’anima, che di simboli è fatta. Nei pilastri e nelle arcate, nelle torri e nelle guglie i costruttori di cattedrali proiettarono la sacralità interiore dell’essere umano, tramandata attraverso i millenni nelle forme iconografiche della tradizione occidentale tanto quanto orientale, in sistemi di legno, calce e pietra che nutrivano il loro slancio verticale di un sapere rigoroso, a esprimere insieme la sfida prometeica della razionalità edificatrice e la complessità abissale dell’inconscio catturato nelle sue manifestazioni che chiamiamo “sacre”. Una cattedrale è dunque non solo un’arca di simboli, che ne contiene la varietà più ampia e frastagliata possibile – sotto forma aniconica o iconica, umana o bestiale, naturale o fantastica, palese o esoterica – ma è anche un simbolo in se stessa. Simboleggia la capacità umana di costruire mediante la ragione ma nel simbolo, ossia nel segno della facoltà creatrice dell’anima stessa. Simboleggia la complessità del passato di cui siamo tessuti, quella molteplicità «di religioni mai del tutto morte e raramente del tutto comprese e praticate», per citare Denis de Rougemont, che nel loro insieme costruiscono la nostra identità collettiva, ma anche la nostra interiorità individuale. Simboleggia l’insieme della nostra storia esterna, alimentata da una continua e incessante circolazione occidentale-orientale, ma anche la storia interiore di ciascuno di noi, la sua vicenda più ibrida e interna. Una complessità cui cospirano, a guardare con occhio attento l’iconografia delle cattedrali, il cristianesimo e il paganesimo, l’ellenismo e il buddhismo, lo zoroastrismo e l’islam selgiuchide. Una pluralità fatta di sapienza spirituale e artistica, ma anche astrologica e alchemica, se pensiamo alla febbrile decrittazione dei simboli ermetici delle cattedrali gotiche profusa nel Mistero delle cattedrali dell’enigmatico Fulcanelli, ma anche al Medioevo fantastico di Jurgis Baltrugaitis, dove è nel fondersi del mostruoso, del macabro, del demoniaco che si attua la fantasmagoria universale che accomuna, per citare le sue parole, la cattedrale gotica alla piramide egizia come alla foresta druidica. Per questo una cattedrale è sacra e non soltanto in senso confessionale. Né è sacra a una singola religione, o mistica del potere, per quanto come tale possa essere stata usata. È sacra, piuttosto, in un senso più universalmente umano. Per questo la notte di lunedì scorso, davanti allo spettacolo apocalittico della cattedrale di Notre Dame sbranata dal fuoco, all’epifania di quella ferita rossa fiammeggiante nel cuore dell’Europa, globalmente teletrasmessa e videotrasmessa in rete, tutta l’umanità ha avvertito una sofferenza e una perdita di identità indubitabili e intollerabili. Il mondo contemporaneo, dominato da un presente onnipresente, è affetto da un’emorragia di passato e soffre inconsciamente di una sua sempre più acuta assenza che lo porta a ricrearlo sotto forma, per esempio, di fiction come Game of Thrones, di cui proprio ora si è inaugurata l’ultima stagione. Ma nella luce così telegenica del crepuscolo di lunedì sulla Senna è come se il passato assente fosse davvero ridiventato presente, nei pianti di tutti. Quella notte – una notte autenticamente medievale, scandita dai canti dell’avemaria per le strade, dai rintocchi a lutto delle campane, e insieme freneticamente tecnologica, dove gli schermi dei televisori, dei telefonini e dei computer sono stati l’iconòstasi davanti a cui abbiamo profuso le nostre più laiche preghiere – abbiamo avvertito il pericolo della perdita del passato. E anche l’esistenza di un’identità collettiva che quel passato a rischio di perdita garantiva presente. Ci siamo resi conto che l’umanità costruttrice di cattedrali – con attenzione, con perizia, con alacrità, con razionalità – rischiava di trasformarsi – per distrazione, per imperizia, per inerzia, per irrazionalità – in un’umanità distruttrice. Nella settimana di passione, quella terrificante croce di fuoco che abbiamo visto fotografata dai droni ci ha trasmesso un ammonimento: che la cattedrale non sia inghiottita, che il passato non sia ridotto in cenere.

L’ultimo libro di Silvia Ronchey è “La cattedrale sommersa” (Rizzoli)

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