Il 19 dicembre di un anno fa la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condannò l’Italia per la perquisizione della sede del Goi e per il sequestro degli elenchi degli iscritti disposto nel 2017 dalla Commissione parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi

Il 19 dicembre di un anno fa la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per la perquisizione della sede del Grande Oriente d’Italia e per il sequestro degli elenchi degli iscritti disposto dalla Commissione parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi. Una sentenza che ha segnato un punto fermo sul rispetto dei diritti fondamentali anche nell’azione degli organi parlamentari.

I fatti risalgono al marzo 2017, quando la Commissione Antimafia ordinò il sequestro degli elenchi di circa 6.000 iscritti alle logge del Goi in Sicilia e Calabria. Il Grande Oriente d’Italia si era rifiutato di consegnare spontaneamente quei dati, sostenendo che nessun iscritto risultava indagato per reati di mafia e che la richiesta avrebbe violato la normativa sulla protezione dei dati personali.

Su ordine della presidente Bindi, il reparto speciale della Guardia di Finanza (SCICO) perquisì la sede nazionale del Grande Oriente a Roma. Nonostante la consegna immediata degli elenchi, la perquisizione durò 14 ore, coinvolse tutti i dipendenti, l’appartamento privato del Gran Maestro e ogni pertinenza dell’edificio. Vennero sequestrati 39 faldoni di documenti, relativi a un arco temporale di 27 anni.

Un’operazione che non produsse risultati concreti: nella relazione finale della Commissione Antimafia, lunga oltre 500 pagine, non compare il nome di un solo iscritto al Grande Oriente d’Italia indagato per mafia.

Nel ricorso presentato a Strasburgo, il Goi – assistito dal professor Vincenzo Zeno-Zencovich – aveva denunciato il carattere intimidatorio della perquisizione e l’assenza di qualsiasi rimedio giurisdizionale interno. Il Tribunale di Roma aveva respinto la richiesta di dissequestro richiamando l’immunità parlamentare, mentre il Garante per la Privacy aveva sostenuto l’inapplicabilità della disciplina sui dati personali al Parlamento.

Nella sentenza, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo accertò la violazione dell’articolo 8 della Convenzione, giudicando la perquisizione e il sequestro sproporzionati, privi di controllo giudiziario preventivo e fondati su motivazioni generiche, in assenza di elementi idonei a giustificare un ragionevole sospetto.



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