Equinozio di Autunno – XX Settembre 2010
Allocuzione del Gran Maestro Gustavo Raffi
Un ponte per superare l’incompiuto e pensare una nuova idea di Paese. Questo è per noi il senso profondo del 150° dell’Unità d’Italia. L’immagine che i nostri occhi oggi vedono è quella di un fabbricato allo stato grezzo: ci sono pilastri e strutture portanti, ma l’opera non è terminata. All’orizzonte c’è ancora una sfida: costruire ciò che manca, le infrastrutture materiali e ideali per rendere concreto il sogno dei nostri padri e gli ideali del Risorgimento. Le ‘rifiniture’ sono importanti quanto il progetto e passano per una nuova attenzione al sociale, per una scuola intesa come vera agenzia educativa, educazione al pensiero e non semplice raccolta di nozioni; per uno Stato che onori il ruolo, la dignità (anche sotto il profilo economico) dei docenti. Ma l’edificio della nazione incrocia anche la strada di necessarie risposte da dare sul fronte della lotta alla disoccupazione e alla criminalità. Non sono le città e le regioni ad essere un ‘cancro’ per l’Italia, come è stato affermato nei giorni scorsi con grossolana incompetenza, ma ciò che impedisce a città, comuni e aree territoriali di vivere e di crescere, di esprimersi dando il meglio del proprio vissuto. Tra riflessione storica e nuove ragioni di impegno condiviso, l’anniversario dell’Unità chiede alle coscienze libere di farsi carico di una storia profonda e diffusa, proiettandola sul domani della nostra storia. Gli ideali oggi non hanno grande benzina nei serbatoi. Proprio per questo c’è un rinnovato bisogno di parole vere, di idee forti, di una rivolta delle coscienze che porti, ciascuno nel proprio campo, a lavorare sul tanto che ancora resta da edificare. La Libera Muratoria, forza morale e argine sicuro posto contro la deriva del pensiero unico, intende dare il proprio contributo attivo a questa storia di verità, spingendo le forze sane della società ad andare oltre la nostalgia e la retorica per costruire un nuovo significato di appartenenza. Basta, perciò, con il disfattismo di chi ha la pancia a corte e la testa nelle catacombe: questo è il tempo della responsabilità.
La scommessa è quella che definisco un nuovo Risorgimento della ragione per superare quelle che il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha definito “le incompiutezze dell’opera di edificazione dello Stato unitario, prima, e dello Stato repubblicano disegnato dai Costituenti, dopo”. Sono convinto che questo anniversario possa rappresentare un nuovo innesco capace di metterci in sintonia con i problemi reali di questo Paese, superando il cortile delle polemiche e l’egoismo del particolare. Serve, come sempre, il coraggio di sfidare gli elefanti, ovvero le rendite di posizione di chi non ha intenzione di porsi sul sentiero della ricerca. Bisogna essere capaci di vedere l’unità nella diversità, nella multiculturalità dei nostri giorni, costruire strade al dialogo e al confronto: questo vuol dire far strada all’Italia responsabile. Del resto, è stata questa anche la lezione del Risorgimento, come moto volto a unificare l’intera nazione italiana. E questo fu il pensiero di un grande meridionalista come Giustino Fortunato, che mise bene in guardia da quelle che definì “bestemmie separatiste”.
In questa topologia del 150°, intesa come spazio che raccoglie tutte le voci e le storie al di là della barriere cronologiche, stanno assieme il Gran Maestro massone Giuseppe Garibaldi, il pensiero di Mazzini e il dolore di un Sud che è rimasto ancora il primo dovere della politica interna di questo Paese. Sono trascorsi un secolo e mezzo dall’Unità e centoquarant’anni da Porta Pia. Tanti, nella vita di una nazione moderna. Eppure, mai come ora, i cittadini si sentono impauriti dal futuro, sfiduciati, preoccupati: il clima è ben diverso dal 1960, quando il Paese era ancora una giovane democrazia in pieno boom economico. Che cosa ci manca? Il Grande Oriente d’Italia lo dice da tempo: il senso laico del dovere e della responsabilità. Ai livelli alti e bassi della scala sociale. Negli uffici pubblici come nelle attività private. Un egoismo dilagante funge da solvente del legame di comunità, rende la parola “patriottismo” un termine grottesco e obsoleto, degno al più di sarcastica irrisione. Gli italiani hanno bisogno di sapere che esistono persone oneste e disinteressate, in grado di farsi carico degli immani problemi di una nazione in caduta libera. E’ successo altre volte, nella nostra storia. Ci sono stati uomini, durante il Risorgimento, che hanno governato a Roma, tornandosene più poveri di quando vi erano arrivati. Per molti di loro si aprirono poi le porte dell’esilio e di un’esistenza spesso triste e miserevole. Sapevano benissimo cosa li aspettava, eppure continuarono ad agire sorretti dalle loro idee, scommettendo sul futuro. Lo fecero perché, semplicemente, credevano occorresse dare l’esempio. Aveva ragione Giordano Bruno a scrivere nello Spaccio della bestia trionfante: “…dove importa l’onore, l’utilità pubblica, la dignità e perfezione del proprio essere, la cura delle divine leggi e naturali, ivi non ti smuovi per terrori che minacciano morte”.
Per ricomporre un’identità culturale e di vissuto, il Paese ha bisogno di riscoprire questa laica purezza d’intenti: laica, perché determinata dall’esclusivo servizio alla collettività, dal senso del dovere, da una doverosa percezione dei propri limiti, da un uso appassionato della ragione per superare l’incompiuto e stendere ponti all’incontro. Il Grande Oriente d’Italia cerca di raccoglierli, questi eretici necessari, individui apparentemente così estranei al mondo che li circonda, perché sa che essi sono una riserva di energie preziose per la democrazia: si rinnova così la continuità ideale ed etica con il tempo glorioso dell’adolescenza della nazione. D’altronde, non c’è che un modo per ricordare davvero il Risorgimento: mostrarsene degni. La storia che amiamo è quella che è sempre in cammino.
Anche queste celebrazioni, dunque, possono essere occasione di crescita in questa “Penisola lunga, un po’ troppo lunga, come dissero gli arabi”, riprendendo la lezione di uomini che ebbero il coraggio di osare. “Quella minoranza – scrisse Benedetto Croce (Storia d’Italia nel secolo XIX) – fece sempre sentire l’azione sua, non si disperse, non si smarrì e si dimostrò salda e flessibile, e ottenne infine vittoria. Perché era assorta in un ideale e di contro le stava la realtà. Ma quell’ideale, poiché possedeva forza etica, aveva vera realtà”. Solo chi sperimenta nella sua carne il vincolo, può cogliere oltre il cerchio il punto.
E’ proprio quella certa idea di Italia che possiamo e dobbiamo riscoprire in questo 150° anniversario. E’ il racconto di un’Italia che sa pensarsi insieme, che crede nella lotta per un domani da costruire, che combatte con una speranza nel cuore, sapendo che un fuoco di brace può far luce per un’intera notte. Ma, scriveva Predag Matvejvic in Mondo ex, “prima di voltare pagina, bisogna leggerla”. La sfida è lottare la visione gattopardesca di abitare sempre il paese degli accomodamenti. Ma significa anche trovare antidoti etici, modelli e prassi per sconfiggere il virus della decomposizione, che affligge molte terre ed energie. Per una stagione di responsabilità che abbia cura del nostro futuro, non abbiamo bisogno di teatrini, cricche e saltimbanchi: servono idee buone e uomini veri per realizzarle.
Significa anche riscoprire la bellezza di coltivare un progetto per l’Italia, la necessità di una politica seria e di un Parlamento inteso come scuola di libertà. Anche in questo, la lezione di Cavour è importante. Scrivendo alla contessa di Circout, il 29 dicembre 1860, e commentando l’ipotesi di dittatura che circolava nella fase di transizione verso l’Unità, affermava: “Io non mi sono mai sentito debole se non quando le Camere erano chiuse. Sono figlio della libertà: è ad essa che debbo tutto quel che sono. La via parlamentare è più lunga, ma è più sicura”.
Se è vero che ogni epoca interroga il passato con la richiesta di una risposta utile al presente, davanti a noi ci sono questioni che invitano a ripensare la cittadinanza, a modulare stili e prassi di etica condivisa, in una parola: ad avere una idea aperta di Patria. Perché l’Unità, quando non è figlia zoppa del conformismo, è una risorsa e un valore. E’ nomos del soggiorno e del mantenimento di un senso. Ripensare un secolo e mezzo dell’Unità significa allora ricordare uomini, figure e storie, passeggiare nel Pantheon di infiniti pensieri e azioni, ma anche declinare un linguaggio del fare, essere scomodamente inattuali perché si ha il coraggio di rimettere in campo questioni aperte.
Ciò vuol dire anche interrogarsi su quale Paese vogliamo essere e su quale Italia portiamo nel cuore. Riflettendo sul carattere degli italiani, Benedetto Croce scriveva che “il carattere di un popolo è la sua storia, tutta la sua storia, nient’altro che la sua storia”. Dunque bisogna permettere all’esistenza italiana di es-porsi. Questa con-divisione esige il plurale, esige il tra noi, esige gli altri, quelli che non hanno smesso di pensare, quelle coscienze libere che non ci stanno a veder ridurre il confronto a slogan, ricette e sondaggi. Gli uomini del dubbio sanno che Finisterrae è solo il silenzio di fronte alle domande vere.
Ho riletto in questi giorni il commiato di Garibaldi dai suoi volontari nel racconto di Giuseppe Cesare Abba (1860): “Ora odo dire che il Generale parte, che se ne va a Caprera, a vivere come in un altro pianeta; e mi par che cominci a tirar un vento di discordie tremende. Guardo gli amici. Questo vento ci piglierà tutti, ci mulinerà un pezzo come foglie, andremo a cadere ciascuno sulla porta di casa nostra. Fossimo come foglie davvero, ma come quella della Sibilla; portasse ciascuna una parola: potessimo ancora raccoglierci a formar qualcosa che avesse senso, un dì; povera carta… rimani pur bianca…. Finiremo poi”.
Forse, cari amici, quella ‘povera carta’ che impaginava di vissuto le Noterelle di uno dei Mille, attende anche l’inchiostro del nostro impegno personale, della storia di tutti noi, per un’Italia diversa e vera, una nazione che non abbia paura dell’agorà e dell’aperto. Non l’Italia del pensiero sottratto ma del nomos del cambiamento di mondo. Quello che più ci intriga, quello per cui vale la pena lottare: un Nuovo Risorgimento della ragione. L’augurio più bello che possiamo fare alla nostra Italia è che nel suo seno cresca una generazione di ribelli, di giovani veri che formati da una scuola che sia palestra di vita e non solo una raccolta di nozioni ed espressioni del pensiero unico, possano far propria la speranza e la lotta di Paolo Borsellino quando diceva, a voce alta e ferma: “Un giorno questa terra sarà bellissima”. Lo sarà se tutti noi vi lavoreremo con passione e ragione. Dopo 150 anni: per restare insieme. Noi lo faremo, consapevoli che nel cielo stellato della Patria brilla la luce di uomini liberi che non hanno paura di mettersi in gioco e di portare ogni giorno non lastroni di morte ma pietre di speranza.
Roma, Villa Il Vascello, 18 settembre 2010
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